Intervista al professor Luigi Janiri, docente di psicologia e psichiatria alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
utilizzo dei social media può provocare la depressione o amplificare i sintomi di una patologia psicologica già esistente? Uno studio sperimentale su Facebook, Instagram e Snapchat, condotto dall’Università della Pennsylvania, sembrarispondere in modo afferamtivo a questa domanda. Tra un like su Facebook e un “cuoricino” su Instagram, infatti, il rischio di finire risucchiati nel vortice delle relazioni virtuali sembra essere dietro l’angolo.
La ricerca ha coinvolto alcuni studenti universitari, cui è stato chiesto mediante questionario quale fosse il proprio umore e il proprio benessere dopo aver trascorso un tot di tempo – calcolato mediante analisi dello smartphone – online. I giovani sono stati poi divisi in due gruppi, uno di controllo – in cui i tempi di navigazione sul web non variavano rispetto a quanto precedentemente rilevato – e uno sperimentale, nel quale i soggetti potevano accedere a ciascuna piattaforma social per massimo 10 minuti al giorno. Il tutto per tre settimane. Al termine sono state tirate le somme dell’esperimento. Si è scoperto che un minor utilizzo dei social aumenta il benessere individuale, riducendo ansia, depressione e senso di solitudine. Una ricerca interessante che stabilisce una prima correlazione fra uso massivo dei social media e talune forme di alterazioni psicologiche. Ma perché questo avviene? In Terris ne ha parlato con il professor Luigi Janiri, docente di psichiatria e psicologia alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Professor Janiri, in che modo queste piattaforme, pensate per connettere le persone possono procurare la depressione?
“Intanto c’è da dire che quella proposta dal mondo dei social network è una socializzazione virtuale, non reale. La possibile origine di una depressione risiederebbe nel fatto che esiste un’illusione di stringere delle relazioni interpersonali che però sono assolutamente non complete, sono per l’appunto virtuali, nel senso vero, reale, concreto e simbolico del termine. Mancano le caratteristiche umane del contatto interpersonale della relazione, la quale si basa su altri principi: quello dell’incontro, del dialogo, del contatto sensoriale. Venendo a mancare questa dimensione e alimentandosi solo di un’illusione, chiaramente il tutto alla fine risulta insoddisfacente, non gratificante. Quello di cui hanno bisogno le persone, in generale, è il contatto sociale, uno dei più importanti antidepressivi. I rapporti che vengono stretti attraverso la rete e i social, possono sfuggire al controllo e questo, può causare problemi importanti a chi ha particolari vulnerabilità”.
Come ci si accorge che una persona, frequentatrice assidua dei social, sta scivolando verso la depressione?
“Uno dei segnali è l’aumentare del numero delle ore dedicato alla connessione online per cercare di avere contatti, reperire notizie sugli altri, di avere questa sorta di pseudo-socialità, nel tentativo di ottenere una gratificazione che non è disponibile. La frequentazione dei social diventa un’attività esclusiva che quindi comincia, come per le dipendenze, a rubare il tempo ad altre attività importanti, comprese le relazioni umane: la persona diventa sempre più chiusa, sempre meno disponibile a uscire, a vedere e incontrare gli altri, e si rinchiude in questa sorta di mondo quasi autistico. Questi sono i primi segnali ai quali, ben presto, ne possono seguire altri importanti: l’abbassamento del tono dell’umore, le crisi di pianto, la caduta dell’autostima, i pensieri negativi, pessimistici – addirittura autolesionistici -, la mancanza di motivazione nel fare le cose e di piacere, l’apatia, i disturbi del ritmo sonno-veglia e dell’alimentazione, crisi di ansia, oppure al contrario una specie di ritardo o rallentamento psicomotorio. Queste persone possono cominciare ad avere problemi ad alzarsi la mattina. Sono segnali di depressione ma anche di dipendenza”.
Perché i giovani scelgono di passare tanto tempo sulle piattaforme social invece di coltivare relazioni concrete?
“Intanto c’è certamente un’offerta sempre più pressante. Come in tutte le forme di dipendenza bisogna considerare la fragilità, la vulnerabilità delle persone, ma anche quello che è lo stimolo ambientale. Se l’ambiente è eccessivamente ricco di stimoli, è chiaro che si può facilmente instaurare una dipendenza patologica con il mezzo. Dal punto di vista individuale, bisogna ricorrere al concetto della vulnerabilità, cioè della predisposizione, della fragilità di alcune persone o adolescenti – che in questo periodo storico stanno aumentando per tanti motivi, sia sociali che psicopatologici – che fa da terreno predisponente al fatto di sviluppare un uso pervasivo ed esclusivo dei social rispetto alle relazioni normali. Inoltre, quando si tratta di adolescenti bisogna pensare che la rete offre anche una certa ‘schermatura’, ossia permette di proteggere, difendere, nascondere e controllare le proprie emozioni. E questo, per delle persone fragili, rappresenta un apparente vantaggio. Si ha l’illusione di essere in contatto con tutti, quando poi invece in realtà non si ha la possibilità di stringere niente. E’ questa la trappola”.
Alcuni social network, grazie all’utilizzo di fotografie o video, permettono agli utenti di ostentare ogni aspetto della loro vita, ponendo in particolare rilievo soprattutto quelli più fashion e glamour. E’ anche questo un modo per fuggire dalla realtà quotidiana?
“Certamente sì, perché il fatto di avere a disposizione dei mezzi espressivi e recettivi che sono particolarmente attraenti in termini di moda, di uso e condivisione con altri coetanei, dà un’impressione, prima di tutto, di essere parte di un gruppo. Diventa anche poi un gioco di rewarding, molto gratificante, il poter utilizzare ed essere parte di una rete di socializzazione particolarmente brillante e glamour; ci si può vantare di fronte a se stessi e agli altri di poter utilizzare un certo tipo di connessione sociale. Né più né meno rispetto a quello che avviene nella socializzazione normali: noi pure siamo gratificati se abbiamo rapporti sociali di alto livello, o all’interno di reti di collegamento e di associazione molto appetibili”.
C’è bisogno di fare informazione nei confronti dei genitori per vigilare sui figli sull’utilizzo dei social?
“Senza dubbio sì. Ci sono anche dei piccoli volumi, dei vademecum, delle opere indirizzate, in modo pedagogico, all’insegnamento, al training, ai suggerimenti, ai consigli da dare ai genitori che hanno dei figli con questo problema che, purtroppo, stanno diventando progressivamente la maggioranza. Tutti i giovani cominciano ad avere o dimostrare quelli che potrebbero apparire dei problemi o comunque sicuramente dei segnali di rischio nei confronti dell’uso di internet e dei social media. I genitori devono essere molto attenti a identificare questi primi segnali per cercare di prevenire veri e propri disturbi. Devono informarsi sui rischi e sulle patologie collegate e riportare queste informazioni ai ragazzi. Tutto questo dovrebbe essere oggetto di campagne di comunicazione e prevenzione nelle scuole e nelle agenzie primarie. Appena si colgono dei segnali specifici di disagio, dei sintomi, bisogna cercare di ottenere il consenso del ragazzo e di accompagnarlo in un centro specialistico che possa aiutarlo ad orientarsi in quello che potrebbe essere già un problema clinico”.